Mai più neoliberismo, mai più queste politiche

di Luigi Pandolfi - volerelaluna.it - 01/11/2019
Secondo recenti stime fornite da Eurostat, l’Italia è il terzo Paese europeo, insieme alla Grecia, per numero di lavoratori poveri o a rischio povertà

Prima di qualsiasi analisi politica e politologica sulle trasformazioni del quadro politico italiano e sull’ascesa di quelle forze che per convenzione chiamiamo populiste, bisognerebbe soffermarsi sui giganteschi cambiamenti che ha subìto la struttura economica e sociale nel nostro Paese negli ultimi trent’anni. “Trent’anni ingloriosi”, di arretramento nei diritti e nella condizione materiale di vita dei ceti popolari, di lento ma sistematico depotenziamento del sistema di welfare costruito tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso.

In quegli altri “trent’anni”, quelli gloriosi, erano stati il lavoro e poi lo Stato sociale i pilastri su cui si appoggiava lo sviluppo della società. Oggi è sulla loro svalutazione che si basano, da un lato la stagnazione economica, dall’altro la crescita di povertà e disuguaglianze. È un dato generalizzato nell’“economia-mondo” capitalistica, ma in Italia esso assume proporzioni particolarmente allarmanti. Chi non lavora è povero, chi lavora è povero lo stesso. E sia i primi che i secondi pagano in proporzione più tasse dei ricchi. Tasse allo Stato, certo, ma soprattutto tasse locali, che, complici i tagli draconiani ai trasferimenti erariali e l’armonizzazione della contabilità degli enti territoriali a quella nazionale ed europea, sono diventate negli anni sempre più esose (+150% in 10 anni) e colpiscono molto i paesi interni.

I numeri sulla povertà rimangono da capogiro. Un italiano su dieci, addirittura, non può mangiare a sufficienza (non parliamo dell’accesso alle cure). Una condizione che riguarda anche chi lavora. Secondo recenti stime fornite da Eurostat, l’Italia è il terzo Paese europeo, insieme alla Grecia, per numero di lavoratori poveri o a rischio povertà (il 16% sono contratti precari, circa 3 milioni). Prima di noi, ma non molto distanti, soltanto Spagna e Romania.

Qualche numero. L’ultimo Rapporto annuale dell’INPS dice che in Italia il 28% dei rapporti di lavoro (4,3 milioni) prevedono una retribuzione oraria inferiore ai 9 euro lordi, ben al di sotto delle soglie minime. E che questa condizione riguarda il 25,9% dei dipendenti privati, il 39% degli operai agricoli (gli irregolari non sono conteggiati) e il 69,7% dei lavoratori domestici. Salari giù, profitti e super-stipendi su. Dal 1978 ad oggi, mentre il tasso di crescita dei redditi della fascia più bassa della popolazione è stato del 65%, quello dello 0,01% più ricco è stato del 300%.

Un deciso cambio di passo tra chi sta sopra e chi sta sotto. Con la crisi che ha fatto il resto. Ma non dappertutto allo stesso modo. È acclarato che l’impatto sul Mezzogiorno della crisi globale è stato più devastante rispetto al CentroNord, sia in termini di PIL che di crescita della disoccupazione e di ampliamento delle sacche di indigenza. Alcune regioni centrali, un tempo incubatrici di nuovi modelli di sviluppo, come le Marche e l’Umbria, stanno subendo da alcuni anni una sorta di “meridionalizzazione” della propria economia; interi comparti produttivi, per lo più imperniati sulla piccola e media impresa, sono in grande affanno, anzi proprio allo sbaraglio.

Tira ancora un po’, con qualche acciacco, l’economia dell’export agganciata alla manifattura tedesca, ma per quanto tempo ancora? I segnali che vengono dalla Germania sono tutt’altro che incoraggianti e la forsennata guerra dei dazi innescata da Trump rischia di portare il mondo verso una nuova, grave, crisi mondiale. Gli ingredienti ci sono tutti: crescita bassa e borse alle stelle. Il mix ideale per un nuovo tsunami economico-finanziario. L’Italia, che dalla crisi non è mai uscita davvero, adesso rischia di arrivare all’appuntamento con una nuova, possibile, recessione globale con i fondamentali troppo deboli e con una società che ha perso già da tempo la fiducia nel futuro. C’entrano qualcosa la povertà e le disuguaglianze con la situazione economica che stiamo vivendo? Certamente. Con stipendi da fame, lavoretti e disoccupazione elevata l’economia ristagna. Senza reddito non c’è spesa, senza spesa non c’è reddito.

La destra a trazione leghista è in grado di dare risposte a questi problemi? No. La storia della flat tax dimostra che il suo approccio alla crisi è lo stesso della teoria economica mainstream. Soldi ai ricchi affinché qualcosa sgoccioli anche per i poveri. Vecchio ciarpame liberista, non c’è altro da aggiungere. Perché allora prende tanti voti? Un po’ per merito suo – nei periodi di crisi la paura funziona sempre –, ma soprattutto perché dall’altra parte non c’è un’alternativa convincente.

«Non son 30 pesos, son 30 años» (vedi Cile, non son trenta pesos, son trenta anos) si grida in questi giorni nelle piazze cilene. Sintesi perfetta. Ma non è un problema “di quelli là”. È qualcosa che riguarda anche noi. Noi Italia, noi Europa, dove il paradigma neoliberale è moneta corrente, anche per settori ampi di quella che viene, ancora, chiamata “sinistra”, addirittura oltre i confini del PD. Problema di egemonia, avremmo detto un po’ di tempo fa. Un quadro da rompere e da ricomporre. Facendo innanzitutto – e fino in fondo – i conti con i “nostri” trent’anni. Basterebbe iniziare con parole semplici: «mai più neoliberismo, mai più queste politiche». Le stesse che ha usato, con successo, il Frente de Todos in Argentina alle ultime elezioni. Solo su questo terreno si può provare ad arginare la deriva razzista e fascio-liberista che al momento, nel nostro Paese, appare irrefrenabile.

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