Sul risultato dei referendum abrogativi sul lavoro e sulla cittadinanza occorre evitare esagerazioni. È stata una sconfitta, ma non va dimenticato che entro pochi giorni le destre faranno approvare dal Senato le modifiche costituzionali sulla magistratura, volute dal governo, che se entreranno in vigore ne colpiranno l’indipendenza. Dopo la seconda approvazione della proposta da parte di Camera e Senato (in autunno?) ci sarà il referendum costituzionale nel 2026. Sono referendum diversi: quello abrogativo (ex articolo 75) è soggetto a vincoli diversi da quello costituzionale (ex articolo 138) che non ha quorum per essere valido.
Esaminiamo luci e ombre della sconfitta. Viene trascurato che il progetto referendario riguardava inizialmente quesiti in parte diversi da quelli sottoposti al voto. All’inizio c’erano i 4 referendum promossi dalla Cgil sui diritti e per la salute dei lavoratori (oltre 1 milione di firme ciascuno) insieme a quello per l’autonomia regionale differenziata di Calderoli con 1.260.000 firme raccolte, superando le 500.000 necessarie sia per quelle cartacee che per quelle raccolte online.
Il contrasto all’autonomia regionale differenziata di Calderoli aveva acquisito forza anzitutto nel Mezzogiorno ma anche in importanti aree del Nord. Non a caso la raccolta delle firme ha marciato con rapidità a luglio e agosto 2024, oltre le previsioni. Infatti esponenti istituzionali delle destre delle regioni del Mezzogiorno espressero preoccupazioni per il risultato di questo referendum. Va ricordato che la Corte costituzionale, chiamata a giudicare le contestazioni di 5 regioni alla legge Calderoli, ha duramente sanzionato con 2 sentenze la legge Calderoli. Purtroppo la Corte ha deciso in modo opposto alla Cassazione (che ne aveva approvato il quesito) sul referendum abrogativo. La Consulta ha ritenuto che il quesito non potesse più essere sottoposto a elettrici ed elettori e ha bocciato il referendum.
Rispetto la decisione della Corte, ma non la condivido. La legge Calderoli può fare ancora danni come dimostra il nuovo ddl approvato dal governo sui Lep che dichiara di voler garantire soluzioni identiche per tutti, in qualunque parte d’Italia, ma non stanzia un euro per finanziare gli interventi per garantire le aree più deboli. Le classiche nozze con i fichi secchi. L’assenza dell’autonomia regionale differenziata ha indebolito i quesiti su lavoro e sulla salute di chi lavora. È stato presentato in piena estate 2024 il quesito per dare la possibilità agli stranieri di chiedere la cittadinanza per gli stranieri residenti dopo 5 anni, raccogliendo 620.000 firme online in un mese. Il quesito sulla cittadinanza presentato con questa spinta dal basso ha conquistato il diritto di essere appoggiato ed è diventato il 5° Sì. Oggi sappiamo che avrebbe avuto bisogno di una costruzione migliore del consenso in presenza di una campagna selvaggia della destra contro i migranti.
È stata una sostituzione di fatto tra Autonomia regionale differenziata e cittadinanza. Avrebbe avuto senso articolare diversamente il giudizio sui 5 referendum? No, sarebbe stato incomprensibile. Neppure si può ritirare un quesito referendario presentato perché una volta accolto non è più nella disponibilità dei proponenti, ha un percorso obbligato.
Il venire meno del referendum abrogativo della legge Calderoli, che coagulava insieme versante sociale e versante partitico, ha indebolito la campagna referendaria 2025.
Occorre interrogarsi su errori fatti, su dichiarazioni inopportune, ma soprattutto trovo una forzatura il sommare astensionisti e destre. Le destre ora si nascondono dietro gli astensionisti ma prima o poi dovranno misurarsi in campo aperto e il referendum costituzionale chiamato a difendere l’indipendenza della magistratura sarà probabilmente la prima occasione, nel 2026, e occorre farsi trovare preparati perché il problema non sarà più il quorum ma chi prende più voti; la conferma da parte dei votanti dell’8/9 giugno sarebbe decisivo.
Dopo il referendum del 4/12/2016 che cancellò le “deformazioni” costituzionali volute dal governo Renzi è stato evidente che nel Pd non ne venivano affrontate le conseguenze, facendo i conti con la deriva politica blairiana del periodo Renzi. Di questa deriva politica il jobs act era il corrispettivo sociale del tentativo di cambiare ben 47 articoli della Costituzione italiana. Resta largamente da chiarire quali siano i presupposti politici, almeno di maggioranza, su cui si sta lavorando. Se il Pd ha l’ambizione di essere il partito di riferimento di una coalizione alternativa alle destre deve chiarire questi orientamenti. Se non avesse vinto Schlein non potremmo neppure porci il problema, ma per un’eterogenesi delle conseguenze delle regole del Pd abbiamo avuto la sua vittoria alle primarie e ora c’è speranza, a condizione che non ci si faccia riassorbire nella deriva che l’ha preceduta, a torto definita riformista. Ho un ricordo ben diverso dei veri riformisti.
Landini ha ragione: i referendum avevano l’obiettivo di affrontare questioni reali sui diritti del lavoro e per la salute dei lavoratori. I referendum non hanno raggiunto l’obiettivo ma i problemi restano e devono essere affrontati. Occorre rilanciare una lotta di lunga lena per migliorare sostanzialmente le condizioni di chi lavora sotto tutti i profili e questo deve essere un asse fondamentale della coalizione alternativa alle destre.
Un ragionamento sull’istituto referendario va fatto. I referendum hanno svolto un ruolo fondamentale in passaggi chiave della storia d’Italia; sul piano costituzionale basta ricordare la scelta della Repubblica; sul piano sociale, dei diritti, del costume vanno ricordati divorzio e aborto; in queste occasioni sono stati respinti i tentativi di cancellazione voluti dalla destra culturale e politica compresa una parte retrograda del mondo cattolico. Si potrebbe dire: per fortuna che il referendum c’è, anche se in realtà ci sono due tipologie diverse, con funzioni diverse, ma entrambe fanno decidere elettrici ed elettori su questioni di fondo, importanti.
I referendum sono un arricchimento della partecipazione democratica, di una democrazia che non si limita a una delega con il voto ogni 5 anni. È chiaro che oggi la destra pensa con il premierato di ridurre il parlamento a supporto del “capo” e a ridimensionare il ruolo del Presidente della Repubblica, punto di riferimento dell’unità nazionale. La destra punta a una autocrazia che ogni 5 anni elegge un “capo”, giustamente definita una “capocrazia”, che farebbe uscire l’Italia dai parametri sostanziali della Costituzione, ma quasi di soppiatto. Tutto il potere al capo e l’attacco all’indipendenza della magistratura targato Nordio ne è la premessa.
Manifestazioni di volontà collettiva e referendum sono capisaldi della democrazia partecipata delineata dalla nostra Carta costituzionale, che ha segnato una rottura con il fascismo e con l’accentramento autoritario nelle mani del “capo”. Anche a sinistra talora hanno prevalso i timori, eppure i referendum sono una formidabile occasione di partecipazione democratica, certo da gestire con attenzione e rigore perché come tutte le armi potenti possono essere di difficile gestione. Oggi sono utili in presenza di gruppi dirigenti politici autoreferenziali e consentono di costruire esperienze collettive di partecipazione in grandi occasioni politiche e sociali. Esattamente quello che manca oggi a buona parte delle esperienze politiche.
Non è vero che da 30 anni non si raggiunge il quorum nei referendum abrogativi. È vero che nel 2011 i 4 referendum (2 per l’acqua pubblica, 1 contro il nucleare e 1 per abrogare il legittimo impedimento) raggiunsero il quorum e i Sì arrivarono al 95%, malgrado anni di quorum mancato. Dopo il 2011 il quorum non è stato raggiunto.
Quindi i referendum non sono tutti uguali.
Il risultato dell’8/9 giugno può essere un motivo per rinunciare a questo strumento? No, ma occorre scegliere i problemi decisivi e avere cura di costruire un movimento largo di sostegno. Nel 2011 il movimento per l’acqua pubblica aveva avuto un percorso di radicamento, aveva presentato una proposta di legge popolare con 400.000 firme (ignorata). Il nucleare aveva alle spalle il referendum del 1987 che aveva detto no al nucleare e portato alla chiusura delle centrali nucleari in Italia. Nel 2011, richiamando all’impegno protagonisti del 1987 e costruendo in modo nuovo il rapporto tra lavoro e ambiente, senza trascurare l’incubo di Fukushima che ricordò a tutti che il nucleare è in sé (Scalia) una minaccia concreta alla vita e all’ambiente, si ottenne il risultato. Il legittimo impedimento concludeva la demolizione di una legge che doveva consentire a Berlusconi di sottrarsi ai processi. In quel periodo in parlamento la maggioranza di destra aveva votato che Ruby era la nipote di Mubarak.
L’esperienza dice che per vincere un referendum occorre realizzare un movimento formidabile, ampio, unitario eppure molteplice, in grado di reggere un urto forte, ad esempio contro l’astensionismo. Se i referendum non esistessero in Italia sarebbe comunque necessario impegnarsi per costruire un impegno per cambiare i rapporti di forza. I referendum sono strumenti di una democrazia viva e partecipata, che va rafforzata non dilapidata.
Si può migliorare il meccanismo referendario? Forse, a condizione che non lo si voglia sminuire, renderlo più difficile. Anni fa era stato proposto di agganciare il quorum dei referendum alla percentuale dei votanti alle politiche, tuttavia occorre riflettere bene perché in realtà si avverte un sentimento non amichevole della maggioranza verso i referendum, visti come la potenziale rottura di equilibri di una maggioranza che preferisce risolvere i problemi in ambiti ristretti, nei vertici, esattamente il contrario di quanto è necessario.
È giunto il momento per una riflessione più di fondo sulla democrazia, sulla partecipazione democratica dal basso, per reagire alla disaffezione dal voto. Ad esempio il voto per i referendum potrebbe avvenire online come per le firme?
Sono riflessioni necessarie ma che richiedono una visione organica del valore fondante che ha la partecipazione democratica proprio nel momento in cui la destra vuole decidere in circoli sempre più ristretti, sottraendo le sue decisioni al controllo, ad esempio della magistratura, oggi negli Usa unico garante contro Trump. Questa riflessione va fatta ma il referendum non è un imputato, al contrario va valorizzato e reso più attraente, anche per contrastare la non partecipazione al voto.
Iniziamo subito a preparare il referendum per fermare l’attacco all’indipendenza della magistratura.