Il voto in Umbria

di Pancho Pardi - Liberacittadinanza - 30/10/2019
Se non vogliamo la versione italiana dell'Ungheria di Victor Orban bisogna darsi una mossa. Quale?

Il voto in Umbria pone a tutti coloro che temono l'egemonia della Lega di Salvini (sia su qualsiasi centrodestra sia su qualsiasi alleanza con i 5Stelle) problemi di interpretazione della realtà e necessità di proposte utili a rovesciare la situazione.

Quanto all'interpretazione è inutile esagerare in finezze. Abbiamo letto tutti analisi che illustrano la decadenza del centrosinistra in Umbria: nessuna sorpresa, la tendenza era già in atto da anni e il voto regionale non fa che rendere definitivo un processo avviato da molto tempo. E la coalizione 5Stelle-PD rabberciata in extremis non solo non ha posto rimedio ma forse ha addirittura aggravato il divario tra le parti in competizione. È inutile anche provare a distinguere la crisi umbra da quella nazionale. Considerata la severità dei tempi conviene invece prendere di petto l'Umbria come uno spietato paradigma della realtà generale del paese.

Il centrodestra a trazione leghista riscuote interesse e consenso crescenti: l'aumento considerevole dei partecipanti al voto va inteso come volontà esplicita di far vincere la Lega e il centrodestra. La coalizione 5Stelle-PD è ridotta in condizioni che è difficile immaginare più negative (anche se non c'è mai limite al peggio). I 5Stelle sono in rotta e per di più sono lacerati da divisioni inevitabili tra le loro varie anime; alla ricerca di diversivi Di Maio propone che la riforma del nucleo fiscale vada a vantaggio non solo dei dipendenti ma anche delle imprese (una misura che nemmeno Confindustria richiede).

Il PD non è più la parvenza (vagamente ottimistica) di qualche mese fa. È incrinato dalla scissione di Renzi e dalla permanenza di una quota insidiosa di renziani nelle sue file. Piccoli corpi sparsi tremolano intorno all'esigua forza di attrazione di Calenda. La sinistra ha perso la sua consistenza storica e si ripropone inutilmente punita con severità dai risultati del voto.

Difficile immaginare per il cittadino elettore di centrosinistra un destino meno disastroso di questo. Il classico interrogativo "che fare?" è troppo arduo per essere affrontato, ma forse perfino "che dire?" è al di sopra delle sue forze attuali.

E poiché molti indulgeranno alla ricerca di scuse è anche inutile insistere sulle micidiali leggi elettorali con cui siamo stati costretti a votare.

D'accordo, fanno letteralmente schifo ma per onestà dovremmo anche riconoscere che sul piano istituzionale negli ultimi lustri i cittadini hanno saputo liquidare le riforme costituzionali prima di Berlusconi (2006) e poi di Renzi (2016) e nell'intervallo (2012) hanno anche affermato con forza la difesa dei beni comuni.

È mai possibile che una forza civile pluralistica capace di promuovere e indirizzare azioni democratiche così rilevanti non abbia poi le risorse per fronteggiare leggi elettorali infami?

Confessiamolo: purtroppo è possibile, ma a questo punto è necessario lottare per evitare il tracollo.

Se non vogliamo la versione italiana (leggi salviniana) dell'Ungheria di Victor Orban bisogna darsi una mossa. Quale?

La realtà attuale impedisce fin dall'inizio di esercitare l'arte combinatoria: per costruire uno schieramento utile non è più possibile limitarsi a immaginare chi mettere insieme a chi. Abbiamo di fronte una realtà spezzata in cui è impossibile ricondurre a unità le componenti sempre più separate.

Nella più realistica delle ipotesi saremmo costretti a pregare in ginocchio Di Maio perché non torni con Salvini alla prima occasione, Renzi perché sostenga validamente Zingaretti, la sinistra perché smetta di far finta di esistere in senso elettorale e provi a ricostituire i suoi fondamenti, e Calenda, se davvero esiste, perché faccia esistere davvero il suo supposto popolo. E lasciamo stare la fantascienza sulla candidatura del premier da mettere alla guida di questa armata immaginaria.

Può darsi che la politica reale, ispirata dall'aspirazione alla sopravvivenza, riesca a produrre qualche fantasia su questo terreno, ma è meglio, per non nutrire illusioni, dare per scontato che mosse e contromosse svaniscano rapidamente. Poiché non si può ricorrere alla magia é meglio prospettare il problema nella sua crudezza: perché il mondo di centrodestra (nella versione destracentro) riesce a produrre una sua rappresentanza e il mondo di centrosinistra no? E se per caso si illude di riuscirci perché gli viene fuori sbilenca, triste, incapace?

Forse, se guardiamo in modo disincantato gli elementi di cui pensiamo di disporre si deve riconoscere che i pezzi del mosaico non si incastrano più.Forse allora bisogna impegnarsi a cambiare i pezzi del mosaico. Non è con gli equilibrismi stile Franceschini che si risolve il problema. Ma la nostra parte di società ha oggi le risorse non si dice per risolverlo ma anche solo per affrontarlo?

Ormai fuori tempo massimo, forse è utile riconoscere che anche nella nostra parte di società nessuno si si preoccupa più della rappresentanza politica. Ci siamo abituati ad affidarci a qualcuno emergente dal panorama mediatico e la domanda più frequente nei confronti di chi emerge è se sappia o no "comunicare".

La rappresentanza ridotta a comunicazione! Lasciamo stare gli esempi, inutili per banalità e ridondanza, che testimoniano come tra i due termini tenda ad esservi spesso un rapporto inversamente proporzionale: tanta comunicazione, poca rappresentanza. In una società preoccupata per la rappresentanza politica il taglio, a fini di risparmio, di un terzo dei parlamentari avrebbe prodotto un minimo di dibattito pubblico. Zero, ma non c'è stato nemmeno il dibattito parlamentare.

E la maggioranza imbarazzante con cui la misura è stata approvata, nel disinteresse più assoluto verso le numerose conseguenze e contraddizioni istituzionali (rilevanti quelle proprio sulla rappresentanza) avvalora la tesi qualunquista secondo cui i parlamentari sono ormai dei pecoroni. E aggiungiamo: non si può barattare la Costituzione con una miserabile continuità della legislatura.

Si potrebbe ammettere che l'attuale democrazia rappresentativa non rappresenta più e ciò induce a non preoccuparsi di quella futura. E magari ad accettare il mito fasullo della democrazia diretta tramite la rete. Qui la mistificazione raggiunge il suo apice. In attesa che altre piattaforme Montesquieu o Voltaire si presentino sulla scena è elementare fare il conto di chi partecipa alla piattaforma Rousseau: al massimo qualche decina di migliaia di entusiasti temporanei ma le cifre normali sono assai più basse: lo riconoscono gli stessi parlamentari indicati con quel mezzo da poche decine di iscritti nella competizione interna per entrare in lista. Ma queste sono inezie.

Ciò che preoccupa molto di più è l'equiparazione tra il voto al seggio elettorale e il clic da casa. Il voto comporta: verifica della tessera elettorale, formulazione di un orientamento, coda al seggio, esercizio del voto nella cabina elettorale, il tutto nel contesto di un comportamento collettivo, di interazione fisica col prossimo; una vera e propria cerimonia partecipativa. Non si può confondere con la comodità pantofolara di non muoversi da casa, dove la pressione su un tasto materializza senza fatica la propria volontà solipsistica.

Ma lasciamo la democrazia diretta, tramite rete, a chi vuole crederci. Il nostro problema è la rappresentanza. Come sostituire i pezzi del mosaico? Il nostro problema è connettere le energie che si manifestano ognuna per proprio conto sul proprio terreno sociale, energie che con modestia si applicano là dove misurano l'efficacia dei propri sforzi e temono che dedicarsi a compiti più vasti produca solo dispersione. I giovani che si oppongono al degrado della scuola e dell'Università e che aspirano a una formazione che permetta loro di destreggiarsi in mercato del lavoro ostile; i giovani lavoratori che hanno ormai fatto matura esperienza del lavoro malpagato e addirittura gratuito; i lavoratori resi tutti virtualmente precari dalla globalizzazione; le donne ancora, nonostante la modernità, vincolate nel migliore dei casi al doppio lavoro, fuori e in casa; gli insegnanti avviliti da stipendi sempre più bassi e da prassi burocratiche odiose; gli intellettuali che vorrebbero fare qualcosa di più che firmare manifesti; i protagonisti numerosissimi del volontariato in tutti i campi del sociale; i cittadini pronti a mobilitarsi per tutte le cause di materia ambientale, i comitati che in tutta Italia si sono battuti per i referendum costituzionali e per la difesa dei beni comuni sono tutti soggetti sociali che per il loro stesso carattere aspirano a una società libera impostata sull'uguaglianza dei diritti, dei doveri e delle opportunità. Questa società non può soccombere per inerzia a una visione dove la disuguaglianza regna incontrastata e il governo ha "pieni poteri" sulle assemblee elettive. Deve invece trovare in sé la forza di dare rappresentanza alle proprie aspirazioni.

Se gli strumenti tradizionali della politica hanno perso il filo occorre costruire nuovi strumenti. La prossima volta che si voterà nelle elezioni politiche non potremo presentarci all'appuntamento sguarniti e accontentarci di un accordo qualsiasi tra i partiti slabbrati di oggi. Se ci adatteremo sarà anche colpa nostra. Bisogna per onestà riconoscere che questo nuovo difficile compito ha un ostacolo in più. La società pullula di energie nascoste ma non ci sono movimenti in piedi, le forze soggettive scarseggiano. C'è il radicamento sociale ma è silenzioso e anonimo. Facciamo in modo che diventi parlante e attivo.

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