Il business della pietà

di Barbara Fois - Liberacittadinanza - 14/09/2017
Una escalation di richieste di soldi da parte di onlus e ong: ma i soldi arrivano davvero a chi ne ha bisogno?

E’ un periodo che più emittenti televisive ci bombardano con immagini impressionanti che dovrebbero indurre alla commozione e alla pietà. Immagini che sono scelte per creare disagio e sensi di colpa: bambini piangenti, scheletrici, affamati, abbandonati, malati, deformi, immagini accompagnate dal commento di voci severe, che ti colpevolizzano per indurti a sborsare soldi in quantità crescente. Solo l’anno scorso queste cosiddette onlus “no-profit” ti chiedevano pochi spicci una tantum: 1 euro o due, da donarsi telefonicamente, adesso pretendono che tu versi una quota mensile assai più consistente e per tempi indefiniti.

Voi direte che sono cinica e malfidata, ma ormai sento una insofferenza crescente, un fastidio irritato, che diventa rabbia e disprezzo. Anche perché, avendo lavorato per anni in Televisioni e radio private e in RAI, so benissimo quanto costi un solo “passaggio” in video di un qualsiasi spot pubblicitario, compresi quelli cosiddetti “umanitari” e si tratta non di centinaia, ma di migliaia di euro. Oltretutto qui gli spot sono decine al giorno e lunghi diversi minuti. Inoltre le fasce orarie sono quelle che raccolgono un bacino di utenza più vario e corposo e sono dunque più care.

Nel 2013 un'indagine di ItaliaOggi ha provato a confrontare i costi di 30 secondi di pubblicità, a seconda delle fasce orarie, chiaramente influenti, per le diverse reti televisive. Per quanto riguarda i costi degli spazi pubblicitari sulle varie reti RAI sono molto alti:

Per il programma di Milly Carlucci uno spot di trenta secondi costa ben 92mila €. Mediamente alta la spesa da sostenere per farsi pubblicità prima o dopo il Tg1 delle 20, dai 62mila agli 83mila euro, mentre la cifra si abbassa e non di poco per la seconda serata, quando Porta a Porta riesce a strappare 15 mila euro per slot. La cifra per Rai2 si ridimensiona, per quanto concerne la prima serata (dai 43mila ai 50mila euro), mentre la storia Domenica Sportiva riesce a racimolarne 30mila. Rai3 porta avanti i suoi cavalli di razza, Che Tempo che Fa e Ballarò, capaci di meritarsi slot di 30 secondi che vanno dai 62 ai 72mila euro.”

Anche Mediaset è molto cara: “I leader del settore, come prevedibile che sia, per il Biscione, restano comunque Striscia la Notizia (79-82 mila) e un programma della scuderia De Filippi, ma quello che meno ci si aspetterebbe: Italia's Got Talent (83-100 mila). A difendersi su Italia 1 sono Le Iene (che della sua durata di quasi tre ore ne occupa un terzo solo con la pubblicità (48 mila euro) e la Champion's League con slot dal costo di 82 mila euro.”

 Per quel che riguarda La7 e Sky i costi sono più bassi ma vanno comunque dai 15 mila ai 35 mila euro, sempre per 30 secondi. Allego qui in appendice il prezziario Rai di questo autunno, per una durata di 15 secondi.

Ma noi stiamo parlando di numerosi spot e di diversi minuti di durata ciascuno!! Ma quanto gli costa tutta questa pubblicità?? E dei soldi che ricevono quanti andranno alle persone mostrate in quei patetici filmati? C’è chi ha condotto delle indagini precise, i cui risultati sono davvero sorprendenti e anche inquietanti: Linda Polman ha scritto libri e articoli in cui sostiene che le organizzazioni umanitarie nel mondo sono approssimativamente 40mila e gestiscono circa 6 miliardi di dollari: un giro di affari così appetitoso che intorno ad esso si creano dei circoli viziosi che non fanno che aumentare la violenza e la durata dei conflitti  nei contesti in cui operano le ong (organizzazioni non governative).  

Dunque secondo la Polman, reporter free lance olandese, docente di giornalismo presso l'Università di Utrecht, le crisi umanitarie più gravi sarebbero involontariamente alimentate dagli aiuti internazionali. E' una posizione forte, quella che nel libro "L'industria della solidarietà" (Bruno Mondadori, 2009), racconta le contraddizioni della macchina delle ong, disorganizzate e spesso irresponsabili, che involontariamente sostiene i gruppi armati e dunque il perpetrarsi dei conflitti. "La competizione economica tra le ong è il problema più grande", afferma la giornalista "perché se lavorassero insieme verrebbero sprecati meno soldi e potrebbero esercitare un maggiore controllo sui beni".

Il fatto è che nelle zone di guerra non c'è economia, i soldi arrivano grazie agli aiuti internazionali, che i ribelli (o le milizie governative corrotte) rubano e rivendono per acquistare armi e continuare a combattere per difendere i propri interessi. "Il problema è che più aumenta la violenza, più arrivano aiuti, questo lo hanno capito anche i signori della guerra. In Sierra Leone, Congo, Ruanda, dove i massacri sono cruenti, in alcuni momenti si potevano contare più di 250 ong a operare in una sola città, Goma, dove gli operatori umanitari erano in competizione per distribuire coperte, viveri e costruire campi profughi. Che in molti casi hanno dato ospitalità anche a quelli che io chiamo i "bad guys", i cattivi, ovvero coloro che hanno ucciso, incendiato, violentato". 
Agenzie delle Nazioni Unite, ong, piccole associazioni... tutti colpevoli allo stesso modo? "In un certo senso sì. Perché quello che conta non è la dimensione della tua azione, ma il rapporto con le autorità locali. Se queste sono corrotte e non lavorano per il bene della popolazione, allora nessun progetto può invertire la rotta di questo comportamento."

Dunque la solidarietà è un business?
«Sì. Decine di migliaia di persone sono impiegate in decine di migliaia di Ong - piccole,internazionali, locali -. È un sistema che muove miliardi e che conta un numero esorbitante di organizzazioni: 37mila. I soldi sono tanti, insieme formerebbero il Pil della quinta potenza mondiale. Le Ong fanno a gara tra loro per aggiudicarsi questa montagna di fondi, i dollari degli aiuti. Come qualunque impresa privata, guardano ai soldi. Se una Ong vuole sopravvivere in questa competizione deve darsi da fare per fare progetti che attirino l'interesse dei donors, dei benefattori. Ma questo non è necessariamente un fatto positivo».
E perché no?
«Perché c’è un meccanismo perverso: chi dona i soldi sceglie l'organizzazione umanitaria in base all'efficienza, alla rapidità, certo, ma anche sulla base della notorietà dell'associazione, dal fatto di essere rappresentata magari da personaggi che compaiono in tv. È successo spesso che le Ong pagassero dei testimonial o dei bravi pierre per accreditarsi tra i supporter finanziari. Il colonnello Ojukuwu in Biafra si fece assistere da un ufficio di pubbliche relazioni di Ginevra per invitare i giornalisti europei a raccontare e filmare la fame nel Biafra. Ovviamente il colonnello poi confiscò parte degli aiuti per il suo esercito e per comprare armi. Ma anche i palestinesi ricorrono a esperti di comunicazione».
Ma poi le Ong si renderanno utili nelle zone svantaggiate.
«Dipende da cosa si intende con “l‘essere utili”. Le racconto un episodio vissuto in prima persona. Eravamo in Sierra Leone, c’erano moltissime vittime della guerra civile con braccia o gambe amputate. Le Ong erano chiamate lì per fornire arti artificiali. Siccome una Ong “guadagnava” più sovvenzioni a seconda del numero di arti artificiali che “piazzava” in Sierra Leone, si scatenò una competizione incredibile tra le organizzazioni umanitarie per diffondere le proprie protesi. Una Ong arrivò a distribuire braccia artificiali già munite di orologio al polso, per battere la concorrenza. Altre Ong hanno risolto la faccenda portando gli amputati della Sierra Leone direttamente in Usa o Germania, per impiantare le proprie protesi e ricevere i finanziamenti governativi».
Insomma sembra che la bontà c’entri meno del business... 

La Polman è una pazza visionaria? Dice assurdità?Non sembra, anche perché già nel 2002 anche l’italiano Giulio Marcon, scrittore e politico italiano, capogruppo di "Sinistra Italiana-Sinistra Ecologia Libertà-Possibile" alla Camera dei Deputati, aveva scritto un libro su questo argomento, Le ambiguità degli aiuti umanitari, Feltrinelli editore,  suscitando non poche polemiche: "La maggior parte delle organizzazioni del terzo settore non ha elaborato, in questo contesto, strategie di sviluppo economico per il settore non profit tali da far emergere le "alterità" rispetto ai settori dominanti dello stato e del mercato. Nello stesso tempo non ha nemmeno adeguatamente messo in discussione non tanto l'economia di mercato quanto gli indirizzi di fondo cioè il modello di sviluppo delle politiche economiche che aumentano le povertà, le ingiustizie, le diseguaglianze ed erodono i diritti per i quali il terzo settore si batte".

Anche Valentina Furlanetto ha scritto più recentemente un saggio dall’emblematico titolo “L’industria della carità” edito da ChiareLettere. Il saggio indaga sulla credibilità e sul deficit di trasparenza di molte organizzazioni non governative dedite alla raccolta fondi sulla cui destinazione l’autrice solleva molti dubbi. In sostanza il problema nasce dal fatto che i donatori non conoscono i meccanismi che regolano la destinazione dei loro soldi, generosamente dati alle associazioni, alcune delle quali hanno fatto della carità una florida industria..

La prefazione del suo libro è del padre comboniano Alex Zanotelli, un tempo direttore di Nigrizia, una persona critica ma non ostile verso il mondo delle ong.

Di più: nel suo libro La carità che uccide, l’economista internazionale Dambisa Moyo di origini zambiane, aveva detto che le ong sono poco efficienti, con alti costi organizzativi ed amministrativi, risultando poco utili rispetto alla mission iniziale. D’altra parte, nel luglio 2012, in Italia, la Corte dei Conti scriveva che il 33 per cento delle ong presentavano problemi di trasparenza!

Non c’è giorno che passa che non spunti fuori una nuova associazione etichettata “no profit” che ci chiede soldi “impietosendoci”. Ovviamente non è possibile generalizzare ma è giusto chiedersi: perché? Specialmente quando inchieste ed arresti, vedi “mafia capitale”. (“Tu c’hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati? Il traffico di droga rende meno”) evidenziano il lucroso fenomeno …

Ci si può fidare di chi lavora in nome della beneficenza, insomma?

L’Aquila è ancora rasa al suolo dopo il terremoto malgrado la montagna di soldi versati dalla nostra generosità e quelli raccolti da artisti e cantanti nei loro spettacoli. Dove sono finiti i nostri soldi, se i terremotati vivono ancora nelle baracche? E i soldi

per gli alluvionati? Perché nessuno dice dove sono andati a finire i nostri soldi?

Domande legittime, se si considera che le associazioni di beneficenza, le onlus, non hanno alcun obbligo di pubblicare i propri bilanci sui siti internet. La pubblicazione dei bilanci è affidata alla discrezionalità delle singole associazioni contrariarmene a quanto avviene in altri paesi occidentali e manca una vera e propria autorità indipendente che controlli il comportamento delle singole associazioni.

Negli anni Sessanta le ong italiane erano una ventina. Oggi quelle riconosciute (ufficialmente eleggibili per il finanziamento pubblico) sono 248, occupano migliaia di persone e gestiscono 350 milioni di euro l’anno.

Se fosse quotata, “l’economia del bene” peserebbe come sei aziende della stazza di Eni alla Borsa di Milano. Si calcola infatti, secondo un rapporto del 2013, che nel mondo l’insieme di attività che appartengono al Terzo settore (organizzazioni non governative, onlus, fondazioni, enti caritativi, enti umanitari, cooperative) valgano annualmente 400 miliardi di dollari.

Su internet si trovano dati molto interessanti: “Sul pianeta sono operative circa 50mila organizzazioni non governative (ong), che ricevono oltre 10 miliardi di dollari annui di finanziamenti. Le più ricche? Save the Children, World Visione Feed the Children (circa 1,2 miliardi di dollari di bilancio ciascuna).

In Italia Medici senza frontiere (50 milioni di euro); ActionAid (48 milioni); Save the Children (45 milioni); Coopi (Cooperazione internazionale, 35 milioni); Cesvi (Cooperazione e sviluppo, 33 milioni); Emergency (30 milioni); Avsi (Associazione volontari per il servizio internazionale, 28 milioni); Intersos (18 milioni); Cisp (Comitato internazionale per lo sviluppo dei popoli, 16 milioni); Vis (Volontariato internazionale per lo sviluppo, 16 milioni). Un’altra montagna di soldi.”

Secondo una ricerca della UniCredit Foundation, il non profit italiano fattura più della moda. Secondo il rapporto delle Nazioni unite, il numero dei volontari è pari a 140 milioni di persone, più del doppio della popolazione italiana.

La gestione di questa montagna di denaro ha trasformato il mondo della carità.

Se un tempo infatti dedicarsi alla solidarieta internazionale rappresentava una scelta di vita per pochi idealisti che avevano deciso di mettersi al servizio del prossimo, oggi quello in mano alle ong e alle onlus è un vero e proprio business.

Lo spartiacque tra i gruppi di volontari “vecchia maniera”, legati a un’idea romantica delle missioni, e le nuove aziende umanitarie con stipendi pressoché identici a quelli delle multinazionali dell’industria, secondo alcuni è stata l’esperienza post tsunami. Basti pensare che solo attraverso gli sms furono raccolti oltre 47 milioni di euro. Che fine hanno fatto tutti quei soldi?

Per rispondere bisogna andare a vedere i conti delle associazioni …. Che quasi mai lo dicono! Dunque quanta  parte dei nostri soldi vanno a chi ne ha bisogno?

Un esempio: l’Airc, benemerita e blasonata Associazione italiana per la ricerca sul cancro, ( a cui io stessa periodicamente invio dei soldi)  ha raccolto fondi nel week end di Pasqua e in altre occasioni dell’anno vendendo nelle piazze d’Italia una gran quantità di piantine e alberelli nani, ornati col fiocchetto rosso. Bene, in cambio di queste piantine che si seccano nel giro di una settimana i soldi raccolti dalle offerte dove vanno a finire?

Se consideriamo che quegli alberelli li avranno pur comprati da qualche parte, li avranno dovuti trasportare in tutte le piazze italiane, avranno speso soldi per il materiale pubblicitario, la pubblicità per sponsorizzare l’evento sui media e Tv, il panino ai volontari, quanto sarà rimasto? Pochi spiccioli.

Meglio di niente direte. Aspettate. Infatti una grande organizzazione come l’Airc (una per tutte) ha un presidente e un vice che non fanno questo mestiere per nulla e nemmeno per una remunerazione da fame. Tutto il personale collaterale, impiegati, segretarie, tecnici, operatori vari, percepiranno uno stipendio perché anche loro mangiano, hanno moglie e figli, si spostano, comprano. Poi ci sono i costi di gestione: locazioni, computer, telefoni, bollettini postali, comitati vari, la pubblicità, i viaggi e costi di rappresentanza, le consulenze, la benzina, le regalerie, la carta igienica, il rossetto, le matite, le tangenti, le ruberie.

Bene, alla luce di ciò, quanto rimane? E’ già un gran successo che dei tuoi soldi in Africa o nei laboratori scientifici di ricerca o alle zone terremotate arrivi il 10-15%. Come dire: Un fiume impressionante di soldi che si prosciuga man mano lungo il suo percorso fino ad arrivare a ridursi in un rigagnolo.”

E dunque cosa resta da fare? Per tornare a quello che dicevamo all’inizio, possiamo solo continuare a guardare questi spot asfissianti con rabbia crescente, che nasce dalla consapevolezza della nostra impotenza, dalla impossibilità perfino di far del bene, di aiutare gli altri come vorremmo e dall’amara considerazione che in questo paese perduto noi cittadini non contiamo niente e che siamo solo testimoni dello sfascio, della corruzione, dello strapotere di una classe dirigente marcia e corrotta, capace solo di egoistica avidità, in ogni settore, in tutti i campi.

Ha scritto Massimiliano Robespierre, che di ribellione era un esperto: “ i difensori della libertà saranno sempre dei proscritti finché la masnada dei furfanti dominerà…” e anche: “ Proprio quando tutte le leggi sono violate, quando il dispotismo tocca l'apice, quando la buona fede ed il pudore vengono calpestati, il popolo deve insorgere.” 

 

Barbara Fois

http://tv.fanpage.it/quanto-costano-30-secondi-di-pubblicita-in-tv/

http://tv.fanpage.it/

http://www.raipubblicita.it/listini/

www.lavolanda.org/L'industria%20della%20carita.pdf

 

1.   

 Valentina Furlanetto, L’industria della carità

, edizioni Chiare Lettere

 

Save the Children

 

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