Alla Camera arriva il via libera alla «seconda lettura conforme» del disegno di legge di riforma della giustizia. Manca l’ultima votazione del Senato e poi sarà il momento del referendum oppositivo previsto dalla Costituzione.
La discussione uscirà dalla aule del parlamento per andare, come si diceva una volta, in mezzo al popolo. C’è da auspicare che quel tempo arrivi presto. Inutile sperare che dal secondo giro al senato arrivi qualcosa in più del clima rissoso che si è visto ieri alla camera: il testo della revisione costituzionale è stato blindato dall’accordo tra i partiti di maggioranza e non sarà l’ultimo esame del Senato a consegnarci un dibattito centrato e trasparente.
Nella battaglia referendaria si potrà provare a svelare tutto che quello è stato occultato sotto l’etichetta parziale della separazione delle carriere. I nomi delle leggi possono sedurre, ma spesso illudono. Non bisogna dimenticare il monito di Franco Cordero: nelle esperienze normative le cose visibili sono di frequente una controfigura ingannevole di quelle reali.
È quello che accade in questa riforma. Oltre alle statistiche, tutti i recenti casi giudiziari dimostrano l’assoluta irrilevanza, rispetto all’esito del procedimento, del fatto che giudici e pubblici ministeri appartengono allo stesso ordine giudiziario. È sufficiente, a mo’ di esempio, leggere le motivazioni con cui il tribunale del riesame di Milano ha respinto le misure cautelari nelle inchieste urbanistiche per rendersi conto di come e quanto i giudici si discostino dalle richieste delle procure. E ci mancherebbe altro: non siamo ai tempi delle truccate ordalie medievali, il giudizio è attività scientifica, l’applicazione delle norme e il vaglio del materiale probatorio sono pubblicamente verificabili. Di separazione delle carriere, dunque, non c’è reale necessità.
Il vero obiettivo della riforma, nascosto nel cavallo di Troia della separazione delle carriere, è quello di sferrare un colpo diretto all’autonomia della magistratura. Un tentativo di piegare il Consiglio superiore della magistratura – oggi organo di governo autonomo – a logiche di eterogoverno politico. Sarà questo l’effetto del c.d. sorteggio asimmetrico: i rappresentanti in Csm dei magistrati saranno scelti a caso, mentre quelli della politica saranno scientemente eletti, per lo più dalla maggioranza politica di turno. Basta immaginare di riprodurre questa situazione in qualsiasi organo elettivo, dal parlamento al consiglio di classe, per rendersi conto della disparità di coesione, efficacia e potere tra la rappresentanza tirata a dadi e quella eletta, del dominio della seconda sulla prima.
A questo si aggiunga che con l’alta corte disciplinare si proverà a concentrare nelle mani dei giudici “alti”, di cassazione, un potere di influenza sui giudici dei tribunali mai visto prima.
A essere mortificata, in conclusione, non sarà solo l’indipendenza, interna ed esterna, del giudice penale, ma anche quella di tutti quei giudici civili che ogni giorno decidono dei salari, dello stato delle persone, del destino dei figli, dei diritti dei consumatori.
C’è da auspicare che di tutto questo si potrà parlare nella campagna referendaria.
La buona notizia è che lo scorso 14 settembre l’Anm, forte di un mandato assembleare, ha costituito il “Comitato a difesa della Costituzione e per il No al referendum”. Qualcuno sperava che i magistrati accettassero la deriva, che si lasciassero logorare, divisi e soli. Qualcuno, forte del potere del monopolio mediatico, spera che il popolo travolga i giudici sotto una montagna di Sì; li annienti come, nella favola di Daudet, faceva il lupo con la capra di Monsieur Seguin, ostinata a scegliere i pascoli aperti invece che la corda del padrone.
La scommessa, per la democrazia, è che la magistratura sappia spiegare le ragioni della sua battaglia, che non è per un pascolo privato, ma per uno spazio pubblico: quello della giustizia come garanzia dei diritti di tutte e tutti. Se lo saprà fare, si potrà scrivere un’altra variante della favola del signor Seguin, esattamente come fecero gli allievi di Mario Lodi, facendo vincere la libertà.