A, B, C DELLA DEMOCRAZIA. C COME COSTITUZIONE

di Maria Paola Patuelli - 7 novembre 2023 - 09/11/2023
Fare guerra alla Costituzione. Ci provano da trent’anni. Premierato di Meloni, ultimo atto

L’ultimo atto di una guerra che riguarda noi, in Italia, e da tempo annunciata, ha avuto inizio. Non fa direttamente parte della terza guerra mondiale, così l’ha definita Papa Francesco. Una guerra mondiale inutile, come tutte le guerre, e fratricida, come tutte le guerre. E il nostro pensiero, prima di occuparci della guerra in Italia, non riesce a staccarsi dalla guerra mondiale che non solo continua, ma si moltiplica, a due passi da noi, e assorbe ogni giorno la nostra attenzione. Non intendiamo fare somme aritmetiche con i numeri dei morti, russi, ucraini, israeliani, palestinesi e tutti gli altri. Se il mondo è uno, c’è un’unica somma, che si avvicina al mezzo milione, contando solo gli ultimi due anni. A due passi da noi, fra i diecimila morti in Medio Oriente, quasi il 50% è di bambini. E si annuncia un tragico crescendo di antisemitismo in Occidente, che non era scomparso. Era solo in sonno. La mia lettura femminista della guerra, stadio ultimo della cultura patriarcale di dominio, si rivolge a tutte le armi e a tutti gli armati. Ho un’unica parola da dire. FERMATEVI. Come vi permettete di spegnere vite?

Ma accanto a questo strazio senza limiti, che non riesco a mettere fra parentesi, qualsiasi sia il tema trattato, stiamo assistendo, in Italia, a un’altra guerra, che si è intensificata negli ultimi giorni, ma che è in corso perlomeno dagli anni Novanta. È necessario, anzi, doveroso, tentare una ricostruzione storica della ragioni di questa guerra che vede un nuovo minaccioso assalto alla Costituzione.

Fino agli anni Ottanta era in uso non l’assalto alla Costituzione, ma un lento attuarla o il non attuarla. L’assalto poi si è fatto visibile, e in modo crescente. La crisi dei partiti, prima e dopo il 1989, non trova la sua causa nella Costituzione, ma in ben altro, di estraneo e ostile alla Costituzione, dalla occupazione dello Stato da parte di clientele e cordate, alla corruzione, alle connessioni criminali fra Stato, Servizi segreti, mafia e che diede spazio al primo populismo, il Roma ladrona della Lega Nord di Bossi. Fu la fermezza dei Presidenti della Repubblica di quegli anni, fedeli alla Costituzione, come Scalfaro e Ciampi, che consentì alla Repubblica di reggersi in piedi.

Ma il rendere la Costituzione colpevole dei mali italiani, per l’avere fondato una Repubblica parlamentare – troppa democrazia, troppo pluralismo, troppi lacci e lacciuoli per chi governa – compare ben presto. L’ipotesi di Repubblica presidenziale era già presente nei lavori della bicamerale degli anni Novanta. La secessione del Nord era già nei programmi della Lega Nord. Con l’illusione di togliere ragioni alla Lega, il governo di Centrosinistra nel 2001 produsse una pericolosa modifica del Titolo V della Costituzione, rendendo possibili non forme di autogestione, già presenti nel sistema delle Regioni e in Costituzione, nel quadro di una Repubblica una e solidale, ma dando spazio a poteri diversificati da Regione a Regione, spazio che le Regioni del Nord e il ministro Calderoli stanno cercando di rendere definitivo con l’Autonomia Differenziata.

Fu un disastro, la modifica del Titolo V, della cui portata non ci accorgemmo. Ma questa aggressione non fu l’ultima. Il governo Berlusconi nel 2005 fece una riforma costituzionale che Leopoldo Elia definì “Premierato assoluto e secessione del Nord”. Fu allora, con la guida di Oscar Luigi Scalfaro e Leopoldo Elia, che ci rendemmo conto di quanto fosse pericoloso mettere mano alla Costituzione con interventi pesanti. Padri e Madri Costituenti non avevano escluso modifiche. Ma dovevano essere solo puntuali, circoscritte, mirate, in un’ottica di emendamenti migliorativi, non stravolgenti. Il Titolo V incrinò fortemente la Repubblica, e la riforma di Berlusconi cercò di stravolgerla. La fermammo, vincendo nel 2006 un referendum che vide in tutta Italia nascere, in una parte non piccola di opinione pubblica, una rinnovata attenzione alla Costituzione e alla sua storia.

Eravamo quindi preparati, quando comparve la riforma del governo Renzi – di centrosinistra? -, che prevedeva l’indebolimento del Parlamento e del ruolo del Presidente della Repubblica, a dire di nuovo No. E, anche in questo caso, abbiamo vinto il referendum, nel 2016. Ma un altro referendum, purtroppo, lo abbiamo perso, nel settembre del 2020, con il taglio del numero dei parlamentari, approvato da quasi tutte le forze politiche. Abbiamo visto un Parlamento che taglia se stesso, e suggerisce al popolo italiano che molte sono le poltrone inutili, che bisogna correre e non perdere tempo, se siamo in minor numero, lavoriamo più in fretta. Fu uno spettacolo inquietante, mentre era – ed è ancora – in vigore una legge elettorale incostituzionale, che allontana sempre di più il popolo sovrano dalla sua sovranità, esercitando il non voto. Ma un buon numero andò a votare per il taglio. Per nobili ragioni? Non ne sono convinta. Fu un messaggio di sfiducia per le Istituzioni, un dire siete anche troppi, e non lavorate bene. Almeno, spenderemo meno. Ma l’astensionismo è tornato ad alti numeri, nelle elezioni politiche del settembre del 2022. Indifferenza, sfiducia, protesta? In ogni caso, un vulnus che avvicina la Repubblica della Costituzione del 1948 al collasso.

Perché collasso? Possono solo 4 articoli – questo è il numero degli articoli della riforma costituzionale approvata dal Consiglio dei ministri del governo Meloni – cancellare una storia di settantacinque anni? Possono, e il governo lo vuole, perché c’è la “Nazione” da rifondare. Nazione, perché la parola Repubblica è poco amata, a destra. Non dimentichiamo quanto nell’immaginario di ogni destra i miti fondativi siano emozionanti, anche perché sottratti ai dati storici, a fonti verificabili. Ben diversi sono i miti fondativi, del tipo ab urbe condita, dalla Costituzione indicata come Bibbia Civile. Così la definì Ciampi, che ne conosceva la storia. Ciampi era stato un resistente, e quella storia, realmente accaduta, la riteneva incancellabile. Per lui, credente, Bibbia e Costituzione indicano due mondi distinti, ma dello stesso valore.

Meloni quella storia vuole cancellarla. La tradizione da cui proviene non ha nulla a che fare con la storia e le culture che, la Costituzione, l’hanno scritta. Si vuole tornare all’anno zero? I quattro articoli della Meloni sono stati definiti un piccolo mostro giuridico. In ogni caso è, a mio avviso, per quanto rozzo e pasticciato come molti commentatori hanno sottolineato, un fatto politico, da spiegare con attenzione, perché cerca di cancellare la pagina politica più alta della storia italiana, la Costituzione, a cui si è arrivati dopo duecento anni di prove e, ancor più, di errori: una Unità d’Italia raggiunta lentamente e con fatica, le guerre e il fascismo, che non fu incidente di percorso da mettere fra parentesi (Benedetto Croce). È una pianta, il fascismo, che ha radici profonde e ancora vive, pur in mutevoli forme, e non solo in Italia, che prendono vigore di fronte a una politica e a partiti incapaci, loro sì, di riformarsi.

Una Repubblica che veda il presidente del Consiglio eletto direttamente dal popolo – questo vuole il governo Meloni – non esiste in nessun altro luogo. Solo Israele lo mise in opera e poi tornò indietro. Vedere, poi, la condizione della democrazia in Israele, dove, prima della guerra, Netanyhau cercava di togliere autonomia alla Magistratura, ci consiglia di non prendere come esempio di democrazia questo paese. Ci furono in Israele, prima della guerra in corso, grandissime manifestazioni contro Netanyhau, in difesa della Magistratura. Anche in questo caso, gli israeliani non sono tutti Netanyhau, i palestinesi non sono tutti Hamas.

In che cosa consiste la riforma che Meloni, a ragione, definisce svolta storica? Lo sarebbe, una cesura storica, se la legge di modifica costituzionale avesse successo. Si stabilisce che il presidente del Consiglio sia eletto direttamente dal popolo, sottraendo quindi al Parlamento il compito di dare la fiducia al presidente del Consiglio. Inoltre, il Presidente della Repubblica, che non nomina il Presidente del consiglio, non può sciogliere le Camere. Dove va a finire il suo ruolo di garante della Costituzione e di figura super partes? È un fatto storico di lungo periodo l’insofferenza della destra per il Parlamento e per tutto ciò che controlla il potere di chi governa, le opposizioni, la Magistratura, la libera stampa, i media indipendenti. Il Presidente della Repubblica da garante diviene notaio, un passacarte privo di funzioni, questo si legge nei succitati quattro articoli.

Una eventuale crisi parlamentare sarebbe esclusivamente nelle mani della maggioranza di turno che, con una legge elettorale inserita direttamente in Costituzione – cosa che la saggezza e lungimiranza dei Costituenti non volle fare – garantisce il 55% dei seggi al partito che ha il maggior numero dei voti, senza una soglia minima. Un partito, quindi, che potrebbe essere espressione di una piccola minoranza dell’elettorato. Con tutto il resto della rappresentanza fuori gioco. Un asso piglia tutto che demolisce il significato stesso di Palamento. Inoltre, un altro principio voluto dai Costituenti viene dissolto. Ogni parlamentare non rappresenta più l’intera Nazione, come dice la Costituzione, ma obbedisce al Partito che lo ha fatto eleggere. Una eventuale crisi parlamentare o si risolve all’interno della maggioranza vincente – e abbiamo visto con quali numeri potrebbe esser vincente – o si torna al voto. Di nuovo, il Presidente della Repubblica non avrebbe alcun ruolo da svolgere. In questo progetto di riforma ogni equilibrio fra poteri – legislativo, esecutivo, giudiziario – che la Costituzione del 1948 ha posto come fondamento, sarebbe dissolto.

Da più parti, anche di diverso orientamento politico e culturale, stanno emergendo critiche assai severe a questo tentativo di aggressione alla Carta. Ho confrontato le mie riflessioni con pareri autorevoli di costituzionalisti e politologi e ho trovato conforto. Mi riferisco, in particolare, a Azzariti, Pallante, Pasquino, Urbinati, Villone, Zagrebelsky. Intellettuali pubblici che continueranno ad essere per noi un solido punto di riferimento. Giuliano Amato si chiede, in una sua intervista di forte critica, perché non venga scelta la forma del cancellierato tedesco. Ma non trovo una sua adeguata risposta al quesito. È un tema sul quale ritornare.

Mi auguro che il Parlamento abbia un moto di risveglio e dia vita ad un vero confronto e conflitto, e che i partiti di opposizione facciano con forza e determinazione il loro mestiere. Ma se la sostanza della riforma resta invariata, e se non sarà approvata, come pare – e mi auguro – con una maggioranza dei due terzi (Articolo 138 della Costituzione), sicuramente si arriverà al referendum. Ci aspetta un percorso difficile, ma non impossibile.

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