Tre anni appena festeggiati, tra retorica, pericolose nostalgie e immotivati trionfalismi: il governo Meloni gongola ed è ancora saldo al potere, malgrado se stesso e la sua incapacità di governare un Paese complesso come l’Italia e le sue reali urgenze. Ciò, naturalmente, se si assume il significato più profondo e nobile, strettamente connesso al senso dello Stato e della responsabilità, del concetto di governare. Perché se, diversamente, assumiamo quello spicciolo della gestione del potere, dell’occupazione dei posti, del vittimismo politico, dell’irresponsabilità e della foga propagandistica, allora questo governo è indubbiamente il migliore e racchiude in sé il peggio dell’esperienza politica della destra, a partire dall’avvento del berlusconismo. Mai nessuno, infatti, aveva portato l’Italia così in basso, ad ogni livello, sul piano della politica interna come su quello del suo ruolo nello scacchiere geopolitico europeo e mondiale. E dire che, rimembrando i governi Berlusconi e quello grottesco della Lega e dei 5 Stelle di Di Maio, sembrava un risultato difficile da eguagliare o superare (in negativo).
Ma, in questo Paese, mai porre limiti, né dare per scontato che il peggio sia passato. L’esecutivo guidato da Giorgia Meloni, tuttavia, condivide un aspetto peculiare con i precedenti appena citati, ossia lo scollamento totale dalla realtà. Il trionfalismo entusiasta che anima le dichiarazioni degli esponenti della maggioranza è infatti uno schiaffo fortissimo alla realtà, che è del tutto diversa dalla narrazione, alimentata a suon di slogan, di questa destra bislacca, volgare e dilettantesca. Una destra che fagocita qualsiasi distinguo, che rende ormai impossibili persino le (sottili) sfumature tra posizioni e storie che, una volta, apparivano in qualche modo diverse. Se un tempo, ad esempio, Tajani poteva sembrare differente da Salvini, oggi è tutto confuso e indistinto. Una pastoia politica con la quale si costruisce una propaganda ininterrotta, che prova maldestramente a nascondere la pochezza, l’inadeguatezza e gli strafalcioni memorabili di questo governo.
Che appare compatto ma che, in realtà, vive di equilibri dai quali dipende il destino della premier e che vengono disegnati nelle stanze chiuse dei rapporti, spesso accesi e conflittuali, dei tre leader delle forze di maggioranza. Urla e insulti che però rimangono furbescamente soffocati, ovattati, rinchiusi nei contenitori asettici delle reciproche convenienze. Il governo Meloni vive solo di concessioni reciproche, di compromessi costanti, che alla fine diventano linea politica condivisa, capace di accantonare eventuali mal di pancia. In questo lavoro di compattezza, a destra, sono stati sempre più bravi, peccato però che, tale collaborazione non sia finalizzata alla tutela dell’interesse collettivo, dello Stato, dei cittadini, ma solo a nutrirsi di potere e a produrre mostruosità ed errori imbarazzanti. La riforma della Giustizia, voluta da Carlo Nordio non in nome del popolo italiano, ma in memoria di Silvio Berlusconi, è riuscita a passare e ora sarà oggetto di un referendum che potrebbe respingerla.
Un referendum senza quorum che porterà sicuramente il governo, capace di occupare praticamente tutti i canali di informazione del servizio pubblico, a spingere sempre di più sulla propaganda. Lo scopo è quello di convincere i cittadini dell’assoluta importanza di una riforma che, in realtà, non solo non risolve nessuno dei problemi della giustizia italiana (nessuna maggiore rapidità o efficienza, nessun aumento di organico dei magistrati, nessun effetto positivo sull’organizzazione della giustizia), ma ne mette seriamente a rischio l’autonomia, oltre a triplicare i costi del sistema. Un regalo a Forza Italia, uno dei tre pilastri del governo. L’altro è rappresentato dalla Lega e dall’incontinente Matteo Salvini. A lui interessava il ponte sullo Stretto (e gli interessi che innesca) e su quello ha basato tutti i suoi sforzi in questi tre anni di governo. Un progetto inutile, per il quale sono stati stanziati oltre 13 miliardi, sottraendo fondi ad ambiti più prioritari e utili per il Sud. Un progetto sul quale è recentemente arrivato lo stop da parte della Corte dei Conti, che ha posto l’accento sulle procedure, sulle lacune, ma soprattutto sui suoi costi e sul rischio che esso comporti un gigantesco danno erariale.
Un intervento che ha portato la Corte dei Conti al centro dell’azione di fuoco della destra, con la premier in testa, prima che i toni, tracimati in un comportamento al limite del sovversivo, si abbassassero. Su suggerimento del Capo dello Stato o, forse, perché qualcuno ha spiegato agli “illuminati” esponenti del governo quanto sia serio ed enorme il rischio sollevato dalla Corte. In tema di soldi buttati, poi, c’è un’altra grande opera di questo governo, la più importante di Giorgia Meloni, quella sulla quale lei e il ministro Piantedosi avevano puntato tutto. Si tratta dei centri per migranti in Albania, costati centinaia di milioni, nonostante fossero palesemente in contrasto con il diritto internazionale. Centri che, oggi, sono in buona parte inutilizzati, con la misera eccezione di una struttura attualmente usata come CPR e che detiene venticinque persone, venticinque poveri disperati in attesa di rimpatrio. Nel centro, visitato recentemente da Rachele Scarpa e Matteo Orfini, deputati del Partito Democratico, e Riccardo Magi, di +Europa, accompagnati dalla giornalista Alessandra Ziniti, si vivono quelle stesse atroci ingiustizie che, negli anni, sono state denunciate in tante altre strutture simili.
Lì sono rinchiusi esseri umani che, spesso, non sanno nemmeno perché sono detenuti e perché sono stati portati in Albania. Luoghi, i centri per il rimpatrio, così come i CIE e altre strutture similari, nei quali l’autolesionismo, i tentati suicidi, i problemi psicologici sono all’ordine del giorno. Luoghi non luoghi, nei quali il dolore e la giusta rivendicazione dei propri diritti vengono sedati a colpi di Rivotril, farmaco che appartiene alla classe delle benzodiazepine e che viene usato come antiepilettico e come ansiolitico. Un argomento, quello dei centri in Albania, che Giorgia Meloni evita con cura, perché rappresenta il suo più grande ed evidente inciampo personale, così macroscopico che nessuna retorica o propaganda può riparare. E senza la forza oscura della propaganda, Meloni e la sua accolita strampalata e collerica di ministre e ministri, non sa come fare, perché è la sola arma a disposizione per andare avanti, confondere le acque, evitare di dare risposte alle domande più urgenti del Paese.
Un Paese che, però, sonnecchia colpevolmente, lasciandosi bastare gli slogan, le schermaglie, le rassicurazioni. Il consenso di Meloni non è mai stato realmente scalfito, e questo è un mistero antropologico dentro una nazione nella quale le priorità rimangono distanti dall’azione della politica. Una nazione nella quale, ad esempio, la sanità pubblica viene umiliata e lasciata a se stessa, in nome di spinte e interessi privati che ci stanno portando verso il baratro di una privatizzazione de facto, con la Lombardia che si dirige già verso la supremazia dei pazienti assicurati sui pazienti comuni. Una nazione nella quale la scuola viene decostruita ogni giorno, privata di mezzi e spinta verso una costante tecnicizzazione del sapere e verso una definitiva aziendalizzazione della formazione. Un Paese con quattro mafie autoctone e altre di importazione rispetto alle quali si interviene depotenziando strumenti che sono invece fondamentali per le indagini e per il contrasto.
Un Paese nel quale, davanti a una terribile violenza di genere, si reagisce con modelli antichi, con mentalità becere e senza interventi e misure di prevenzione, culturale, di polizia e giuridica. Un Paese nel quale il lavoro è un’utopia e la sicurezza sul lavoro una piaga della quale ci si occupa per qualche giorno solo davanti all’ennesimo lavoratore triturato dal sistema. Davanti a tutto questo, la propaganda è totalmente inutile, perché con la propaganda non si governa un Paese, anche se, a quanto pare, essa è sufficiente a tenere cloroformizzati gli italiani, incapaci di uscire dal fanatismo politico e di pensare criticamente, di pretendere uno Stato che faccia lo Stato e impieghi le risorse per il bene collettivo e non per la vanità o gli interessi di questo o quel ministro o partito e della premier. La sveglia dovrebbe suonare prima di tutto per chi continua a essere parte di un meccanismo che si autoalimenta e che costerà caro a tutti, qualsiasi sia l’adesione politica. Perché continuando a navigare senza un governo reale, ci si troverà presto a osservare le macerie. E a contare i pochi spiccioli, troppo pochi, rimasti per ricostruire non solo i pezzi di Stato smantellati, ma l’intera democrazia.
Massimiliano Perna -ilmegafono.org


