ZAGREBELSKY: IL PRESIDENZIALISMO ESALTA L’ODIO SOCIALE CHE GIÀ DIVIDE IL PAESE

di Simonetta Fiori - libertaegiustizia.it - 10/05/2023
Di seguito riportiamo l’intervista di Simonetta Fiori a Zagrebelsky, pubblicata ieri, 6 maggio 2023, su Repubblica

Con il suo nuovo e presago volume “Tempi difficili per la Costituzione”, Gustavo Zagrebelsky, presidente onorario di Libertà e Giustizia, invita a far quadrato attorno ai valori costituzionali fondativi della nostra identità democratica e avverte dei pericoli del presidenzialismo, fondato sulla spaccatura del corpo elettorale in due fronti avversi. Sta a noi scegliere tra politica partecipativa e democrazia decidente.

«I professori di diritto costituzionale, specialmente quando sono dei pusillanimi opportunisti, trovano sempre argomenti per giustificare le tesi più assurde: è il loro mestiere». A pronunciare queste parole non è un irriducibile capopopolo, ma il re Vittorio Emanuele III inviperito contro il principe dei Costituzionalisti di allora, prono nel 1938 alle richieste di Mussolini. La citazione potrebbe fungere da esergo del nuovo importante saggio di Gustavo Zagrebelsky, la cui intenzione di denuncia è dichiarata sin dal titolo Tempi difficili per la Costituzione (esce oggi da Laterza). Una riflessione grave e malinconica di uno dei più grandi costituzionalisti italiani sullo stato di salute della nostra Carta fondativa, che però non inclina a rassegnazione ma pone le premesse culturali e politiche per una lunga battaglia civile. Il libro esce alla vigilia delle consultazioni promosse da Giorgia Meloni per la Bicamerale sulle Riforme costituzionali.

Perché sono tempi difficili per la Costituzione?
«Perché la sua sostanza è andata disperdendosi in mille rivoli. E i principali responsabili di questo sbriciolamento sono proprio i costituzionalisti. Sono loro che hanno annacquato la Carta in un mare di opinioni diverse dove ciascun potere politico può pescare ciò che più gli serve. Un tempo esisteva una scienza costituzionale, oggi esistono tanti pareri diversi».

Ma non è un bene la discussione sulle questioni costituzionali?
«Ben venga la libera discussione, se però la Carta resta al di sopra di noi, non scivola sotto interessi particolari. Quando ho cominciato a studiare il diritto costituzionale, i nomi tutelari erano Costantino Mortati, Vezio Crisafulli, Carlo Esposito, poi sono arrivati Paolo Barile e Leopoldo Elia, il mio maestro. Anche tra loro esistevano opinioni diverse ma tutti cooperavano per un’idea comune di Costituzione. Tutti insieme la difesero concordemente in anni in cui era stata congelata. La Carta stava al di sopra delle loro diverse sensibilità, oggi non è più così. Non ci si divide, oggi, sui dettagli, ma sui fondamenti».
Lei arriva alla conclusione che i costituzionalisti non esistono più.
«Non esistono più come gruppo omogeneo. Ne è la riprova il silenzio della nostra Associazione nazionale sulle questioni più importanti. Ha mai sentito la sua voce sulle riforme costituzionali? Si fanno convegni sugli argomenti più diversi evitando però i temi cosiddetti divisivi. La verità è che siamo profondamente divisi, ma non dobbiamo farlo vedere. Intendiamoci, non è una critica ma un dispiacere, anche un rimorso».

Quando comincia il declino?
«Fino al principio degli anni Ottanta soltanto l’idea di cambiare la Carta era considerata una bestemmia. Poi grazie alla Grande Riforma di Bettino Craxi e al piccone del presidente Cossiga quell’idea è stata, come si dice, sdoganata. Molti hanno cominciato a parlare non della Costituzione ma di ciò che avevano in testa, e in questo modo l’hanno indebolita. In quegli anni comincia la diaspora dei costituzionalisti nei vari territori della politica. Ma la fede nella Carta – la nostra Bibbia – non è stata sufficiente a tenerli uniti in un progetto comune».

Che cosa intende?
«Quelli della mia generazione scelsero di studiare il diritto costituzionale non per ragioni di successo sociale o convenienza materiale, ma perché spinti da un’urgenza civile, ossia dall’adesione ai valori costituzionali fondativi di un’identità democratica. In questo senso un costituzionalista è molto diverso da un giurista di altri campi dove ci si esercita per fini professionali. A me pare che quella adesione sia vacillante. Si propongono teorie costituzionali le più varie e distanti, indipendentemente dalla responsabilità propria del nostro lavoro che è quella di tenere unito il corpo sociale in nome dei principi del costituzionalismo».

È prevalsa la tentazione di servire una parte politica?
«La tentazione di farsi fiancheggiatori di qualche parte politica, non solo per ricavarne premi di carriera e benefici – questo è l’aspetto deteriore – ma anche perché oggettivamente il diritto costituzionale è quello più vicino alla vita della polis, la politica nell’accezione più alta».

Lei fa una distinzione tra costituzionalisti e costituzionisti. E sostiene che questo è il tempo dei costituzionisti.
«È una distinzione importante. I costituzionalisti sono figli della democrazia liberale dell’Ottocento; i costituzionisti discendono dalla cultura guglielmina e identificano la Costituzione con lo Stato. Più di tutto, hanno a cuore la così detta governabilità e per questo sono inclini a passare sopra a tante cose che invece interessano i costituzionalisti. Sono gli eterni servitori dello Stato, i cosiddetti grands (o petits)commis, capaci di passare senza batter ciglio dall’Italia liberale al fascismo e più tardi alla democrazia repubblicana. Tecnici al servizio del potere».

Senta professore, è evidente che lei si sta riferendo anche all’attualità, al dibattito sul presidenzialismo e a insigni giuristi accondiscendenti alla riforma costituzionale voluta dalla destra.
«La interrompo subito. Non ho voluto fare nomi. Credo che ciascuno di noi possa rispecchiarsi nella distinzione che ho appena fatto».

Fermiamoci all’asservimento della Costituzione alle ragioni politiche di parte. Le conseguenze non sono di poco conto.

«La Costituzione è paragonabile a una pianta: se si smette di innaffiarla, fatalmente si dissecca. La sua vitalità dipende da come la alimentiamo. Mi limito ad alcuni esempi di opposte prospettive. La Costituzione è un disegno duraturo della vita civile o è il prodotto di una serie di compromessi di un’epoca superata? Ancora: qual è lo stato della memoria circa il mito fondativo della Repubblica? Che idea abbiamo delle vicende che dalla caduta del fascismo attraverso la Resistenza hanno condotto all’Assemblea Costituente? Non mi pare che siamo tutti d’accordo».

Il presidente del Senato, seconda carica dello Stato, insiste sul suo antiantifascismo, rimarcando l’assenza della parola antifascismo nella Carta.  

«Appunto: c’è stata una reazione dei costituzionalisti come tali? Proseguo. Il sistema parlamentare fondato sul pluralismo dei partiti e su un Parlamento deliberante esprime un’idea ancora valida di politica partecipativa oppure la concezione del futuro è la cosiddetta “democrazia decidente”, dove le elezioni sono ridotte a campo di battaglia senza esclusione di colpi? In altre parole: democrazia o presidenzialismo?».

Martedì la premier Meloni comincia le consultazioni per la Bicamerale sul presidenzialismo.

«A me pare che i presidenzialismi stiano dando pessima prova anche in Francia e negli Stati Uniti. E non è certo una soluzione per il nostro Paese. Ci lamentiamo dell’odio sociale che pervade la società italiana. Il presidenzialismo, fondato sulla spaccatura del corpo elettorale in due fronti avversi, sembra fatto apposta per esaltare l’aspetto distruttivo. Una riforma costituzionale in questa direzione potrebbe alimentare un humus pericoloso».

Che cosa la preoccupa? 

«Mi inquieta un tratto culturale di questa fase politica: l’idea di unità concepita non secondo l’ accezione della democrazia liberale – unità nel libero confronto – ma unità che espunge le differenze come attentati alla comunità e le qualifica come dissidenze. L’enfasi sulla parola nazione, l’uso martellante del termine italiani al posto di cittadini, l’obbligo della “memoria condivisa” che è un’espressione non saprei dire se più sciocca o più vuota. Il compito della politica non è annullare le distinzioni, ma far convivere cose diverse. Oggi non c’è la violenza d’un tempo, ma non sottovalutiamo un altro tipo di violenza, il silenziatore. Tocqueville lo chiamava “il cerchio feroce delle opinioni”: se ne sei messo fuori, la tua voce non conterà più niente».

Il suo libro sembra nascere da un’urgenza profonda. 

«A giugno compirò 80 anni. Questo libretto vorrebbe essere una testimonianza di ciò in cui ho creduto e ancora credo. C’è, ma forse m’illudo, anche un poco di autobiografia».

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